da L’età degli eroi
Filosofia e mitologia ‘dell’umano’ nei western diretti da Clint Eastwood

Roma, Studium Edizioni, 2021

INDICE

Premessa
Per una Filosofia delle narrazioni contemporanee

Uno
L’eroe come vendicatore.
Lo straniero senza nome

Due
L’eroe come uomo in fuga.
Il texano dagli occhi di ghiaccio

Tre
Il cavaliere pallido
L’eroe come fantasma del sacro

Quattro
L’eroe come individuo.
Gli spietati

Note

Filmografia

Premessa
Per una Filosofia delle narrazioni contemporanee

   Il titolo del mio libro conduce in due direzioni, comunque complementari.
   L’età degli eroi è intesa anzitutto come epoca, come periodo storico/mitico, ovvero l’Ottocento americano trasformato dal western in finestra dei sogni, territorio per eccellenza dell’avventura, qui nella visione che ne offre Clint Eastwood, regista e interprete nell’arco di vent’anni di quattro film dedicati al genere, un compiuto ciclo: Lo straniero senza nome (High plains drifter, 1973), Il texano dagli occhi di ghiaccio (The outlaw Josey Wales, 1976), Il cavaliere pallido (Pale rider, 1985), Gli spietati (Unforgiven, 1992).
   Ma il titolo richiama anche l’età vera e propria dei protagonisti di questa epopea (si va dalla piena maturità ad una ruvida vecchiaia), età che condiziona e muta prospettive, lasciando il segno tanto nel progressivo arrugginirsi delle giunture quanto nelle scelte morali di personaggi in lotta perenne – per pura vendetta, per semplice sopravvivenza, per senso di giustizia, per sordidi motivi – con l’ambiente circostante e con sé stessi, uomini tormentati, violenti, controversi eppure, a loro modo e senza scivolare in un romanticismo ‘maledetto’ di comodo, eroici (secondo Josè Ortega y Gasset, del resto, “Tutti, in varia misura, siamo eroi e tutti suscitiamo umili amori”).

   L’universo del cinema western è stato indagato più volte e da vari punti di vista, quasi sempre tuttavia interni al canone, alle sue logiche, alla sua struttura. Un canone che peraltro, proprio per l’irriducibile tipicità, per la fedeltà sistematica ai valori rappresentati, si presta secondo me a riflessioni in grado di trascenderlo senza tradirne l’essenza, piuttosto rapportandolo ad altri universi, provando a misurarlo col metro di ulteriori ma non estranee esigenze etiche ed espressive.
   Il western, infatti, come tutti i generi codificati dal cinema attraverso un impatto anzitutto emotivo, contiene e non trattiene problematiche che spesso nel nostro quotidiano risultano implose, rimosse – il sacro, la vendetta, la morte, la paura… – problematiche incarnate in un mondo e in una galassia di figure in grado di manifestare il pensiero nell’azione (Miguel de Unamuno: “La verità concreta e reale, e non metodica e ideale, è questa: homo sum, ergo cogito. Sentirsi uomo è più immediatamente percepibile del pensare”), personaggi che non temono di esplorare – e recuperare – una consapevole dimensione del tragico (“Per la mentalità moderna la tragedia più che atroce è immorale”, sostiene Nicolás Gómez Dávila in uno dei suoi fulminanti aforismi).

   Scandita in quattro parti, ciascuna dedicata all’approfondimento di uno dei western di Eastwood, collocati nella loro progressione, in ordine di uscita, L’età degli eroi costituisce la seconda tappa del percorso di una nuova disciplina, Filosofia delle narrazioni contemporanee, attraverso cui intendo proporre, servendomi del duplice filtro delle idee e delle storie, una riflessione interdisciplinare sulle pratiche narrative della contemporaneità, coniugando linguaggi sia classici: arte, architettura, poesia, teatro, sia moderni: letteratura di genere, fumetto, cinema, telefilm, nella convinzione che l’uomo è ciò che narra, ciò che esprime rielaborando – con qualsiasi mezzo – le proprie vissute o fantastiche vicende.
   La prima tappa di questo percorso si è concretizzata nel volume, anch’esso dal titolo ambivalente, Ri(e)mozioni novecentesche. Dieci saggi narrativi su dieci idee: lì, con un approccio colto e popolare, superando i tradizionali ‘compartimenti stagni’ e mischiando piuttosto le carte tra ‘alto’ e ‘basso’, tra generi d’arte e di consumo, ho messo a confronto storie e saperi significativi di un secolo che è stato di soglia e di trapasso, che ha cambiato il modo di sentire, di affrontare la realtà. Qui, mettendo egualmente a confronto segmenti convergenti di cinema e filosofia, l’indagine prosegue con lo stesso taglio, tanto analitico quanto creativo, coniugando accanto agli strumenti della ragione quelli della passione (rivendicando i diritti della poesia, è perentoria Maria Zambrano nel sottolineare la lunga tirannide del pensiero: “Così Platone, nel desiderio ansioso di dare indipendenza all’uomo, facendolo evadere dal mondo della tragedia, lo compose in unità e lo mise sotto l’egida della ragione”).
   Certo, rincara Julio Cabrera, i filosofi sono eminentemente “apatici”, escludono cioè nei propri ragionamenti qualsiasi traccia di turbativa emozionale o sentimentale, e fa numerosi esempi in questo senso; ma aggiunge poi che alcuni – tra cui Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche – pongono invece non solo i sentimenti ma anche la passione, quella conoscitiva e quella dei sensi, alla base del loro discorso: “non si sono limitati a tematizzare una componente affettiva, ma l’hanno di fatto inserita nella razionalità come una chiave essenziale di accesso al mondo”. Ed allora: in che misura queste emozioni, questi sentimenti ci fanno vedere il mondo con altri occhi, ci rimettono in discussione?
   Essendo convinto, per dirla con Fernando Savater, che “La filosofia deve dare conto di quello che legge e anche rendersi conto di quel rendere conto, ma non si limita alla glossa critica, alla postilla o allo scolio, ma racconta veramente, narra”, sono altrettanto convinto – partendo dal versante opposto, dal rovescio narrativo – che un linguaggio come il cinema, con le sue peculiarità, con i suoi “concettimmagine” che Cabrera contrappone ai “concettidea” della tradizione scritta, sia perfettamente in grado di esprimere contenuti, istanze, pulsioni filosofiche. Noi siamo abituati a pensarla, la filosofia, come una sorta di genere letterario; ma forse dovremmo uscire dall’ottica gutemberghiana, resistendo alla tentazione, paventata con ironia da José Bergamín, di figurarci “la rappresentazione totale del mondo, l’universo, in un Dizionario Generale Enciclopedico, ordinato, com’è naturale, alfabeticamente”.

   Ed ecco, sulla scorta delle citazioni finora riportate, gli autori di riferimento in questa ricerca: i filosofi spagnoli e latino-americani dello scorso secolo. Una frastagliata eppure riconoscibile linea di pensiero, non solo geografico-linguistica, che si snoda dal primo Novecento, con Unamuno e Ortega, dissimili nelle premesse come negli scopi ma entrambi distanti dall’intellettualismo; al secondo Novecento, con Bergamín, Zambrano, Gómez Dávila, eccentrici esegeti delle zone d’ombra annidate nel cuore stesso della Verità e della Parola; per giungere a fine secolo/Duemila, con Savater e Cabrera, capaci di impostare differenti metodologie e di estendere l’analisi a nuovi linguaggi. Darò spazio, poi, alle riflessioni di quegli studiosi che hanno approfondito le tematiche e i ‘segni’ del grande schermo, elaborando spunti teorici o vere e proprie estetiche; e, naturalmente, terrò conto di alcuni storici e critici del cinema, nonché di quei registi che hanno sondato in profondità l’universo western, mi riferisco soprattutto a John Ford, iniziatore e maestro di un genere che l’opera di Eastwood porta, in certo senso, a compimento.
   Il mio sforzo, anche in questa seconda e non conclusiva tappa del percorso di Filosofia delle narrazioni contemporanee, resta quello di configurare, nella sua sfaccettata complessità, una possibile/credibile mitologia ‘dell’umano’.

Uno

L’eroe come vendicatore.
Lo straniero senza nome

   Strisce di luce attraversano lo schermo, orizzontalmente, i colori confusi e cangianti: una tela astratta, sinuosa, dai volubili confini.
   È da lì che emerge un’ombra mossa e tremolante. Un’ombra puntinata che avanzando si compone, diviene riconoscibile figura, diviene poco a poco cavallo e cavaliere. Il galoppo ora è pacato, ritmico; ed anche il paesaggio assume contorni più netti: scorgiamo un altopiano aspro, sabbioso, cespugli di rovi lo attraversano mentre il vento si trasfonde nella musica, un unico sibilante suono che accompagna il cavaliere nella sua discesa, oltre l’astrazione della tela. La meta, a quanto pare, è un minuscolo paese acquattato giù in fondo, nella pianura, accanto ad un lago dalle acque azzurrissime e immobili.
   Sono le sequenze iniziali del film, che danno subito conto, con iconica plasticità, dei simmetrici protagonisti di questa storia: l’eroe ed il paesaggio. E prima di affrontare la figura dell’eroe, prima di seguirlo nelle sue calibrate ed efferate gesta, sarà bene occuparsi proprio del paesaggio, sviscerandone le coordinate tanto geografiche quanto spirituali, per capire in che modo Eastwood se ne sia servito, nel solco di una precisa e duplice tradizione figurativa.

   Analizzando il paesaggio americano dell’Ottocento, dal punto di vista pittorico e fotografico ma anche nell’ottica del pubblico, Nicoletta Leonardi ricorda come, nella letteratura dapprima, poi nell’arte, le immagini dominanti – e continuamente oscillanti – entro cui veniva concepito e ritratto questo esotico panorama fossero quelle del giardino e del deserto.

Il paesaggio americano evocò tanto l’Eden, paradiso riconquistato colmo di abbondanza, l’Arcadia e la ricomparsa di Atlantide, quanto lo stato originario selvaggio della terra come si credeva fosse al momento della creazione.

   Vari fattori contribuirono a formare questa contrapposizione mitica. Il più importante, il più profondo, fu la diffusa religiosità popolare, che vide nel nuovo mondo una terra promessa, innocente e seducente assieme, da conquistare e convertire; ma anche un luogo incognito, antico, ancestrale, dagli imprevedibili sommovimenti.

Questo mondo rotondo è bello a vedersi,
nove volte di mistero fasciato;
e benché non sappiano i veggenti, imbarazzati,
svelare i segreti del suo cuore operoso,
tu fa battere il tuo con quel di Natura,
e ti sarà tutto chiaro da un capo all’altro.

   Sono versi di Ralph Waldo Emerson, premessi ad uno dei suoi saggi più famosi, dedicato alla natura. Una natura da interpretare e rispettare, a cui abbandonarsi, ma senza pretendere di rivelarne il mistero. Una natura-palcoscenico, che custodisce gelosamente i suoi segreti: e capace di rispecchiare o fomentare i sentimenti di chi si identifica profondamente in essa.
   È questa la natura percorsa con studiata calma, con professionale indolenza, dall’uomo a cavallo.

   La sua meta ora è raggiunta. Sembra che d’un tratto, pur mantenendo un’elusiva asciuttezza, si sia scrollato di dosso quei colori confusi, quei suoni stridenti che lo hanno introdotto. Nella strada principale del paese, l’unica che possa definirsi tale, galoppa lentamente. Lo percepiamo, il suo movimento, il suo caracollare, nello sguardo degli altri, degli abitanti: incuriositi, perplessi, osservano l’arrivo improvviso dello strano personaggio, che ostenta un’insolente tranquillità.
   Lo sguardo dato e non ricambiato, il protagonista che cavalca infischiandosene di coloro che lo scrutano, è del resto una delle situazioni ricorrenti nei western di Eastwood.
   Scrive Marìa Zambrano:

La filosofia ha dimenticato che il vedere alla maniera umana è inseparabile dall’essere visto; che nessuno guarda mai, fosse anche nella solitudine di un paesaggio deserto, nell’ultimo e più recondito rifugio, quando si trova perduto, senza sentirsi al tempo stesso visto.

   Lo straniero non può ignorare il fuoco incrociato di quegli sguardi; e nella sua calma cova una minaccia ben più pericolosa di qualsiasi atteggiamento aggressivo. Scivolando sulle insistite, ansiose occhiate altrui, se ne impadronisce, le contiene senza restituirle, le incamera con rapace indifferenza; lungi dall’estrarre il proprio sguardo, lo tiene al riparo nella fondina del volto ma il sopracciglio-grilletto è teso, immobile, pronto a scattare.
[…]

Tre

L’eroe come fantasma del sacro.
Il cavaliere pallido

   Un ambiguo predicatore, dall’oscuro passato, giunge in un campo di cercatori d’oro e li difende dalle angherie del possidente locale, che vuole sfrattarli dalla loro terra. Conclusa, armi in pugno, la sua missione, riparte verso un’altra meta.
   Oppure: un monopolista, un uomo fattosi dal nulla, indurito dalle difficoltà, tenta di allargare con tutti i mezzi – violenza, corruzione – il proprio impero. La sua parabola si chiuderà in modo tragico.
   O ancora: un cercatore d’oro, tanto mite quanto caparbio, scava contro ogni ragione il suo pezzo di terra, subendo le beffe della natura e degli uomini. Solo alla fine troverà la forza di ribellarsi.

   Modi diversi di raccontare la stessa storia, trame che si intrecciano e si sovrappongono disegnando i confini di un genere i cui temi, le cui situazioni risultano tanto archetipiche nel loro classico stampo quanto dissonanti e mutevoli nel divenire, nell’evoluzione narrativa.
   J. L. Leutrat e S. Liandrat-Guigues, ripercorrendo la storia del western e interrogandosi sulle sue origini, paragonano, servendosi di Foucault, la fisionomia di un individuo a quella di un genere:

Ecco il commento di Michel Foucault alla nozione di ‘provenienza’ derivata da Nietzsche: “Non si tratta tanto di ritrovare in un individuo, in un sentimento o in una idea i caratteri generici che permettono di assimilarlo ad altri individui, sentimenti o idee, […] ma di ritrovare tutte le tracce, esili, singolari, sottoindividuali che possono intersecarsi in esso e formare una rete difficile da sciogliere. Ben lontana dall’essere una categoria della somiglianza, tale provenienza permette di sbrogliare, per metterle da parte, tutte le diverse tracce […]. Là dove l’anima crede di unificarsi, là dove l’Io si inventa una identità o una coerenza il genealogista prende l’avvio per la ricerca del punto di partenza, degli innumerevoli punti di partenza che lasciano quella traccia di colore, quel segno quasi svanito che tuttavia non potrebbe trarre in inganno l’occhio attento dello storico…”

   Da questa riflessione, Leutrat e Liandrat-Guigues prendono spunto per sottolineare come l’identità di un genere non debba essere imbalsamata nella propria presunta immutabile coerenza ma piuttosto rivissuta negli snodi, nelle digressioni, in quelle fratture e proliferazioni che sono la migliore testimonianza della sua vitalità.
   Ma la ricerca “degli innumerevoli punti di partenza” può essere utile anche per rintracciare l’essenza più tipica di un film, costruendo attraverso la genealogia dei personaggi il percorso sottoindividuale della storia raccontata. Nel terzo western di Eastwood i differenti angoli visuali – quello del protagonista, dei suoi amici, dei suoi avversari, ma anche dello sfondo che li contiene – si animano puntando verso un unico centro, che giunge ad assumere una metafisica concretezza: l’universo del sacro.

   Iniziamo anche stavolta dallo sfondo. Eastwood officia qui una vera e propria liturgia della natura, come al solito senza alcun compiacimento né superflui simbolismi.
   Le montagne innevate, la distesa verde degli alberi, i lembi azzurri di cielo è come se esistessero da sempre. Non posseggono lo splendore uniforme, la patina soffusa del giardino, né tantomeno la cruda severità, l’attonito languore del deserto; le consuete metafore, l’oscillazione continua tra i due poli di una sensibilità stupefatta ed assuefatta assieme, qui non hanno corso, non sono spendibili. La natura filmata da Eastwood appare piuttosto come un organismo pulsante, inesausto, dal respiro lento ma capace di improvvise accelerazioni, in possesso di un ritmo proprio, di una logica impossibile da decifrare. Difficile opporsi ad essa, difficile anche assecondarla; l’unico atteggiamento adeguato sembra essere quello di credere in lei.
[…]

Antonio Saccone
“Il Mattino”, 10 marzo 2022

  La novità dell’ultimo libro di Edoardo Sant’Elia, L’età degli eroi. Filosofia e mitologia ‘dell’umano’ nei western diretti da Clint Eastwood, risiede nel tenere insieme sapienza filosofica e accorto, appassionato smontaggio delle immagini filmiche. L’autore, saggista e poeta, propone un’insolita analisi (consegnata ad una tonalità espressiva serrata e fluida insieme) di quattro western con cui il celebre attore e regista americano, nell’arco di vent’anni, dal 1973 al 1992, radicalizza le ragioni di quel genere, modificandone, in qualche modo, prospettive e modalità compositive. Il suo intento è dimostrare come il western si nutra delle ragioni dell’epica fin dalle sue origini e lungo le variegate, mutevoli declinazioni del suo sviluppo, volto a trasformare il periodo storico-mitico rappresentato dall’Ottocento americano in “età degli eroi”.

Alberto Fraccacreta
“Il foglio”, 4 maggio 2022

  Accostamento ardito, callida iunctura per dirla con Orazio, l’amalgama polveroso di western e filosofia spagnola, anche se può apparire velleitario, è quanto mai indovinato. Il racconto moderno si veste così di figure emblematiche e iconiche – l’eroe “vendicatore”, “uomo in fuga”, “fantasma del sacro”, “individuo” – mitologemi in grado di render conto di un umanesimo integrale. […] In verità, Sant’Elia propone con questa sua seconda prova – la prima era Ri(e)mozioni novecentesche. Dieci saggi narrativi su dieci idee – un’inedita materia di studio, la Filosofia delle narrazioni contemporanee appunto, frutto dell’attività di docente all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. L’importante novità di questa materia è nel ricondurre qualsiasi dettaglio diegetico a una scala di valori antropologici essenziali.

Armida Parisi
“Roma”, 14 giugno 2022

  Il cinema va a braccetto con la filosofia e la poesia sotto lo sguardo di un intellettuale che non si ferma davanti alle categorie tradizionali ma anzi si diverte a scardinarle. Sto parlando del libro piccolo ma assai denso che Edoardo Sant’Elia ha firmato per i tipi di Studium: L’età degli eroi. Un titolo che è la sintesi di un percorso di ricerca che fa muovere l’autore nei confini fluttuanti di una disciplina nuova e innovativa: la Filosofia delle narrazioni contemporanee. Cosa si racconta oggi? Come si differenziano le storie dei giorni nostri da quelle di ieri?

Carlo di Legge
“Atelier”, 22 giugno 2022

  Si può ragionare sul film senza menzionare dettagli, competenze tecniche sul modo di fare un film? Non che qui l’analisi delle competenze sia negletta. Ma è come domandare se si possa parlare di una poesia senza decostruirla secondo la tecnica usata, il metro, il ritmo, la rima; ovvero se possa intendersi un dipinto senza analizzare i dettagli dell’arte pittorica, che pure vi sono. Scomporre i prodotti delle arti nelle tecniche usate non rende ancora il loro senso, sebbene possa contribuire a spiegarlo. Se il valore dell’opera è soprattutto riposto nel senso che essa ci trasmette, è alla sua dimensione simbolica che occorre guardare per intendere. Così fa Sant’Elia.

Piero Antonio Toma
“la Repubblica”, 27 giugno 2022

  Sant’Elia è convinto che approcciarsi a questo genere di film con quella specie di ‘apriti Sesamo’ che è la filosofia non è affatto un esercizio sprecato o inutile. E lo fa tenendo a battesimo il suo originale percorso di Filosofia delle narrazioni contemporanee. Ma alla fine è Martin Scorsese a raccogliere la confessione di Eastwood: “Quando tu commetti un’azione violenta, uccidi te stesso così come la persona alla quale le violenza è diretta”. Infatti il protagonista di questi film, dopo essere stato “vendicatore”, “uomo in fuga” e “fantasma del sacro”, ala fine si restituisce come “individuo”.