da Il teatro a Napoli negli anni Novanta
a cura di Edoardo Sant’Elia

Napoli, Tullio Pironti Editore, 2004

Sommario

EDOARDO SANT’ELIA, Napoli: un’invenzione?

I.    Il teatro e la città

PAOLA CINQUE, CHIARA DE CAPRIO, DARIA di BERNARDO,
STEFANIA MARAUCCI, Novanta. La scena partenopea

Parte Prima. I luoghi, le compagnie
1. L’impresa del teatro
2. La riscoperta fisica della scena urbana
   a. Libera Scena Ensemble e la poetica del “teatro mobile”
   b. Teatri uniti e la ricomposizione delle differenze
   c. Compagnia Enzo Moscato e il gioco della contaminazione
   d. L’Ente Teatro Cronaca e Gli Ipocriti, tra professionismo e produzione
3. Giovani personalità e nuove formazioni
   a. Libera Mente come crocevia d’identità e linguaggi artistici
   b. Rossotiziano, tra ritratti d’artista e teatro della scienza
   c. Anonima Romanzi: sperimentazione e memoria

Parte Seconda. I generi, gli autori
1. Tra tradizione e innovazione
   a. I numi tutelari: Eduardo e Viviani
   b. La farsa: modernità di Petito, classicità di Scarpetta
   c. Per una rilettura del Sei-Settecento, tra maschere e miti.
2. La tradizione come repertorio e come evento:
Roberto De Simone, Leo De Berardinis
3. Le lingue della scena: dal magma al comico
   a. Ruccello, Moscato, Santanelli: materiale antropologico
   della nuova drammaturgia.
   b. Il realismo magico di Silvestri e il neobarocco nel teatro di Cappuccio.
   c. Echi dal sociale.
   d. La riscoperta del musical e “il mestiere della risata”.

II. Teatro ed altri linguaggi

MATTEO D’AMBROSIO, Letteratura e teatro. Poesia della scena

PASQUALE IACCIO, Cinema e teatro. Un secolo di destini paralleli

GIROLAMO DE SIMONE, Musica e teatro. Il senso ritrovato

III.    Contributi

Tre quesiti sulla natura odierna del teatro, proposti da E. Sant’Elia
Intervengono LAURA ANGIULLI, GIULIO BAFFI, FORTUNATO CALVINO, RENATO CARPENTIERI, CARLO CERCIELLO, FRANCO DE CIUCEIS, STEFANO DE STEFANO, COSTANZA FALANGA, ANNAMARIA FIERRO, DAVIDE IODICE, MICHELE MONETTA, ENZO MOSCATO, TATO RUSSO, MANLIO SANTANELLI, GIGI SAVOIA, GIANCARLO SEPE, TONI SERVILLO, FRANCESCO URBANO
Materiale raccolto da PAOLA DE CIUCEIS

EDOARDO SANT’ELIA

Napoli: un’invenzione?

1. Il rapporto con la tradizione, ovvero l’astuzia di Agostino

   Non è una parabola. Nella seconda metà del Trecento d.C., Sant’Agostino (in gioventù, tra l’altro, accanito frequentatore di spettacoli) per conciliare la cultura pagana in cui si era formato e quella cristiana che aveva fatto propria convertendosi, per giustificare l’ovvia influenza dei maestri greci e latini sugli uomini di cultura del suo tempo, propose di ‘storicizzare’ gli antichi, di prenderli per quel che erano, di non porre loro domande fuori posto; il punto di vista cristiano non doveva condizionare la rilettura di un passato prestigioso benché barbaro: si trattava piuttosto di un avanzamento ulteriore, di una prospettiva nuova destinata a riscattare – con misura – ed a costruire – con entusiasmo – un futuro luminoso, edificato sopra i resti di una civiltà da tradurre e da contestualizzare, non da negare alla radice.
   Depurato dei suoi accenti evangelici nonché della convinzione, tuttora diffusa, che le arti evolvano continuamente verso un misterioso punto d’arrivo, quest’atteggiamento, questo ragionamento può essere tenuto presente come punto di paragone per tentare di sciogliere il nodo schizofrenico del mondo teatrale partenopeo con la propria tradizione.
   Una tradizione troppo spesso proposta senza alcuna riconsiderazione critico-registica, come se quegli spettacoli fossero ancora specchio di questi tempi o, all’opposto, forzando macchine sceniche spesso di pura – non vuol dire ingenua – semplicità, inzeppandole di contenuti e di spunti spettacolari inutilmente ‘attuali e significativi’. E tuttavia da questa tradizione, in maniera creativa, bisogna comunque ripartire o almeno tenerne conto, averne consapevolezza. Nascere attori-drammaturghi-registi e quant’altro – ma a Napoli – non può essere né una condanna al folclore né deve tradursi nell’impossibile anelito verso una dimensione aurea, accademica, ‘italiana’, che nella sua astrattezza conduce nel migliore dei casi alla maniera, nel peggiore allo scimmiottamento. Si può essere radicati nella propria terra, nel proprio humus, e nel contempo vivere la contemporaneità fino in fondo, con la spudoratezza consapevole di chi, forte dei propri strumenti, dei propri mezzi innati e acquisiti filtra le suggestioni, la cultura dei tempi, ma non la subisce.
   D’altronde questa tradizione esiste perché di generazione in generazione non si è mai interrotto il filo comune, il senso di appartenenza, la fiducia nelle proprie capacità espressive, che ha condotto a risultati personalissimi (dunque universali) ed assieme ascrivibili in un riconoscibile territorio interiore e sociale. Quel territorio dove convivono la follia marionettistica, la slogatura assurda, il ghigno famelico/fantastico di Petito e l’astuzia parassita, l’ostentato decoro, il ridicolo fatto persona di Scarpetta; e poi l’epica coralità, il guizzo improvviso, la musica straziata di Viviani con il tarlo che corrode, il familismo grottesco, il rito infranto di Eduardo; ed ancora, il lucido delirio, l’urlo imploso, le crepe minacciose di Santanelli assieme alla vertigine antropologica, al canto acre, alla malinconia grifagna di Moscato; questo per citare solo alcuni degli autori – quasi sempre anche attori e registi – che negli ultimi centocinquant’anni hanno raccontato Napoli sulle assi di un palcoscenico.
   I loro fantasmi appartengono alla stessa famiglia; lo sfondo da cui traggono vita è – nella sua ambigua, trasparente mutevolezza – il medesimo. Proviamo a scomporre e ricomporre secondo altre linee il sestetto di autori appena citati. La plebe di origine contadinesca, ancora paganeggiante, che crede nel demonio ‘farfariello’ e si identifica in un Pulcinella dai bisogni elementari, impara poi a ridere della propria miseria, a sciogliersi in un canto spudorato e liberatorio, a ritagliarsi spazi tribali di vita e d’azione, per precipitare quindi in un calderone feroce e senza identità, fatto di solitudini coatte, di socialità ostentata, di voci convulse che non formano coro. Petito-Viviani-Moscato: non sono forse loro a raccontarci l’evoluzione/involuzione di questa plebe incarognita? La piccola borghesia aggrappata ai minimi sudati privilegi, orgogliosa delle proprie giubbe e delle proprie sottane, timorosa di ogni contagio plebeo, diviene preda di un rancore superbo, si incivilisce nell’ipocrisia, si esalta nel culto di una nostalgia fittizia, per rinchiudersi poi nel soliloquio magniloquente, nell’invettiva querula, nella dismissione di ogni responsabilità. L’evoluzione/involuzione di questa versione partenopea della piccola borghesia non è forse radiografata da Scarpetta-Eduardo-Santanelli?
   Il teatro racconta Napoli; la reinterpreta attraverso i meccanismi non celati di un autorappresentazione che, di là da ogni compiacimento, da sfogo ad un bisogno feroce: quello di uscire dai propri panni per contemplare se stessi con altri occhi, scoprendo poi che l’altro, lo specchio, vive e muore delle stesse paure, delle stesse interminabili attese; il teatro restituisce Napoli, la re-inventa attraverso una sintesi drammaturgica cordiale ma semplice solo in apparenza ed è a sua volta fonte conscia e inconscia di ispirazione per quella recita quotidiana che (dentro ed oltre il luogo comune) sostanzia, dà forma alla vita partenopea. Anche la musica, la canzone, ha descritto Napoli ma pur con tutte le sue vette di lirismo e di ironia, di sfrontatezza e di pudore, di rabbia e di rimpianto, non ne ha penetrata la buccia profonda esaltandone piuttosto – per sua propria natura ed in mille anche sottili sfumature – la componente pittoresca, enfatizzando le particolarità bizzarre, il gesto estremo, le suggestioni del paesaggio e del clima. Elementi certo presenti nel racconto teatrale ma speziati, contraddetti e resi inquietanti dalla somma di linguaggi che occorre amalgamare – non sovrapporre meccanicamente, non appiattire – per la riuscita di una messa in scena.
   Ecco: padroneggiare quest’eredità con la giusta disinvoltura – senza complessi, senza presunzione – anche servendosi della pragmatica astuzia di Agostino, consente di ripartire da un gradino più alto, di collocarsi in una posizione più esatta, in un centro che non esclude la mobilità ma non ignora nemmeno il punto di partenza.

   2. L’altra tradizione, ovvero gli scrupoli di don Benedetto 

   Ma esiste anche una diversa, meno evidente eredità, così tipica, così singolare da divenire universale, formatasi per accumuli successivi, un coacervo di stratificazioni gestuali, linguistiche, umorali.
   Nel suo saggio su Pulcinella, Benedetto Croce mette subito in guardia nei confronti di un duplice, quasi inevitabile errore: quello di isolare una delle tante incarnazioni della maschera, fornendone così una chiave di lettura inevitabilmente parziale; e, all’opposto, quella di disperderne nei tanti rivoli interpretativi le caratteristiche comiche più genuine: in questo caso non rimarrebbe che “un nome e un vestito”. Certo, addentrandosi successivamente nell’indagine, Croce evidenzia le origini e le fonti, esamina i testi, propone una simbologia, trae delle conclusioni: e tuttavia dall’intero saggio emerge chiaramente, esplicitata all’inizio, serpeggiante in seguito, l’insoddisfazione classificatoria dello storico, dello studioso, il suo disagio nel delimitare con chiarezza i confini della maschera, nel circoscrivere un universo di riferimento che muta in continuazione, che si allarga e si restringe, si innalza e si abbassa a seconda delle imprevedibili esigenze di chi indossa l’ampio camicione bianco.
   E se fosse proprio qui, nella mutevolezza, nell’imprevedibilità, nel percorso ondivago, nel prender tempo collocandosi fuori dal tempo, l’essenza più vera, la traccia più autentica di un’altra tradizione?
   Si tratta di una lunga vicenda le cui gesta, i cui echi sono stati scritti, trascritti, riassunti con infinite variazioni fino a formare un unico canovaccio, che si snoda con tranquilla improntitudine lungo i secoli; in questo caso, più che un rischio di snaturamento la dispersione fornirebbe una precisa chiave di lettura: i pezzi mancanti, i lazzi non codificati sarebbero i vuoti musicali di uno spartito da interpretare con filologica istintualità, un occhio ai pieni e un orecchio ai vuoti, per chi voglia calarsi all’interno di un mondo che ha la sua ragion d’essere sulla scena, che lì nasce, muore, rinasce, senza soluzione di continuità. Le avventure comiche di Pulcinella non ambiscono ad essere tramandate, commentate sulla carta: anche le più poetiche, le più incisive, sono concepite per il godimento istantaneo di chi vi assiste, di chi essendo pubblico diviene complice, sceglie di appartenere – per una sera – allo stesso cerchio, alla stessa cerchia.
   E non è forse quest’offerta di appartenenza, questa voglia di complicità passeggera ma sincera un tipico, anzi archetipico tratto partenopeo? Non l’unico, è ovvio: difficilmente Pulcinella potrà mai dismettere quella paura atavica che, suo malgrado, quando non desidera altro che ritrovare la strada di casa, lo conduce spesso sull’orlo dell’ignoto; difficilmente potrà far sue le ragioni della Storia, troppo impegnato a districarsi nelle urgenze confuse, negli imperativi della quotidianità; difficilmente potrà accettare senza discutere, servo ma non succube, gli accadimenti che gli piovono addosso. Sono queste le sue radici antropologiche, piantate nel profondo, inestirpabili ma non vincolanti; perché Pulcinella, maschera senza una sicura biografia ufficiale, ha tante vite quanti sono gli interpreti che lo hanno incarnato, ed è questa la sua universalità. Ancora una volta la dispersione non è rischio di snaturamento ma opportunità: una l’anima, più e più le voci.
   A conclusione del suo saggio, Croce esprime pessimismo circa il futuro artistico di Pulcinella: la maschera, afferma, è ormai decaduta (e siamo sul finire dell’Ottocento), non risponde più ai gusti delle “classi colte”, che al lazzo spudorato preferiscono liriche e novelle meno crude, alla vitalità incontenibile e grottesca un patetismo indulgente e idealizzante. Per dirla chiara: il ceto medio di fresca formazione rifiuta Pulcinella, in certo qual modo se ne vergogna, non ama identificarsi con lui o riderne; ed è un rifiuto che pesa tuttora, una frattura netta, l’abbandono di un patrimonio connotante che anche gli uomini di teatro partenopei nel corso del Novecento hanno trascurato o considerato con sufficienza. Ma se è vero che in questo stesso periodo Napoli ha prodotto una forte drammaturgia, è altrettanto vero che in parallelo e trasversalmente non si è comunque smarrita la traccia – nella memoria ma anche negli allestimenti – di quell’altra tradizione, ingombrante, disturbante, eppure necessaria.
   Riflettiamo su questo punto. Può considerarsi superato Pulcinella, nell’immaginario come nelle sue connotazioni sceniche? O non rappresenta piuttosto un’escrescenza ancora ben viva nella carne teatrale e sociale non certo liscia, anzi, spessa e rugosa della città partenopea? La sua necessità drammaturgica, la sua verità nasce dal basso, dal ventre, dagli stinchi, dall’andatura sbilenca del pulcino che si fa uomo e invece della cresta si ritrova una bitorzoluta maschera; e quella mezza faccia di cuoio erutta sentimenti e pensieri che possono scaturire solo da lì, inconfessati, eccessivi. Per quanto non si voglia fare i conti con lui, Pulcinella resta comunque acquattato su uno sfondo mitico che non ha alcun bisogno di essere ingentilito o redento, perché esiste a prescindere da qualsiasi teorizzazione. Ma si tratta di un mito carnale, terreno, non fuori conio, ancora perfettamente spendibile.
   Operare della sua figura un recupero archeologico o prezioso, come lo stesso Croce ipotizzava potesse accadere, avrebbe un senso relativo; altra più forte scommessa sarebbe rendere Pulcinella interlocutore spiazzante e straniato del nostro presente: un meteorite sulfureo, capace di porre domande imbarazzanti reagendo a situazioni sconcertanti – e viceversa; capace di smagliare il velo grigio , conseguenziale della normalità (della realtà?) con ricami verbo-gestuali allucinati e barocchi; capace di far scivolare interlocutori e pubblico in un territorio minato ma aperto a tutti – e a tutto –, un lembo di palcoscenico dove la risata scaturisce, puntuale e pirotecnica, senza preavviso, senza garanzie, ben oltre i margini dei consueti copioni/teloni di protezione.
   Pulcinella è il commensale che nessuno ha invitato al gran banchetto teatrale del Novecento partenopeo; di quel banchetto, ricco di cibi e privo di etichetta, gremito delle più varie presenze, dove ognuno, conscio della rispettiva importanza, è stato sempre ben attento a conservare il proprio posto in tavola valutando guardingo, ansiosamente, il ricambio dei commensali come il numero delle portate e la qualità del servizio, di quel lungo banchetto Pulcinella  ha potuto solo raccogliere le briciole, accomodandosi di tanto in tanto per un boccone elargito con malcelata acredine o con intellettualistica benevolenza.  La sua tradizione, tuttavia, sedimentata nei secoli – ed anche incrostata nella pelle di tanti personaggi che da lui direttamente o indirettamente derivano, che ne ripercorrono con maggiore o minore coscienza guizzi e suggestioni – corre accanto e dentro alla più ’nobile’ tradizione d’autore, oscillando come sempre tra oralità e scrittura, premeditazione ed improvvisazione. Gli scrupoli classificatori di Croce sono la migliore testimonianza della sua vitalità: consegnarlo definitivamente ad un preciso per quanto ampio periodo storico, inchiodarlo ad un determinato contesto, non è pensabile; dell’epoca attuale, che scorre al ritmo ambiguo di un eterno presente, Pulcinella può tranquillamente essere vittima e protagonista, testimone e critico: maschera, a tutti gli effetti.

   3. Le svolte della contemporaneità, ovvero la moltiplicazione dei codici, degli spartiti, delle lingue
[…]

Marino Niola
“Il Mattino”, 28 novembre 2004

  Un “territorio dove convivono la follia marionettistica, il ghigno famelico/ fantastico di Petito e l’astuzia parassita, l’ostentato decoro di Scarpetta; e poi l’epica coralità, il guizzo improvviso, la musica straziata di Viviani, con il familismo acre, il rito infranto di Eduardo; ed ancora il lucido delirio di Santanelli assieme alla vertigine metafisica, al canto sospeso, alla malinconia grifagna di Moscato”. Con queste parole a metà tra analisi critica e rammemorazione poetica Edoardo Sant’Elia si riferisce alla grande, fluviale tradizione teatrale di Napoli. Un territorio vasto e ramificato, come un grande estuario del tempo dove si gettano fiumi di storia e convergono le infinite voci, i mille volti che hanno affollato la scena di una città che sembra nata dal teatro […]   In fondo la tanto decantata teatralità di Napoli nasce proprio dal tentativo di rappresentare quella compresenza di culture, di umanità, di ceti che una storia secolare ha giustapposto sulla scena urbana, dal bisogno di trovare un luogo comune dove le culture della città possano scambiare i rispettivi segni, confrontarsi senza affrontarsi, o almeno farlo in maschera, mettere in scena lo storica frattura tra i due popoli di Napoli: quei popoli, diceva Vincenzo Cuoco, divisi da due gradi di clima e due secoli di storia.

Natascia Festa
Intervista, “Corriere del Mezzogiorno”, 28 novembre 2004

Festa -Da cosa nasce l’esigenza di storicizzare il teatro di anni così vicini all’oggi?
  “In questo sono recidivo. Ho tentato di duplicare l’esperienza della rivista “il rosso e il nero” con la quale, in sedici numeri, ho tentato di fare il punto sulla letteratura contemporanea degli anni Novanta. Sulla scorta di quelle riflessioni ho ritenuto che la ‘vivacità’ segnalata in quel decennio molto dovesse all’urgenza espressiva che veniva dalla scena. Il teatro napoletano è per sua natura, ma anche per sua fortuna, bastardo. Si nutre di linguaggi bassi come la sceneggiata, il macchiettismo ma anche alti come la filosofia. Tutto questo andava indagato con un’attenzione critica che non fosse quella rapida della recensione. E poi c’è da aggiungere che in generale a Napoli, la contemparaneistica è un genere poco praticato e questo è un male”.
Festa -Gli anni Novanta sono quelli che hanno fatto i conti con la cosiddetta ‘afasia del post-Eduardo’. Come si è riempita quell’afasia?
  “Non sono d’accordo che Eduardo abbia costituito una cesura, soprattutto perché individuo nel teatro napoletano una linea di continuità dettata da una tradizione vitalissima che si reinventa e si reinterpreta e che mai deve essere intesa come ‘il passato’. Ed è proprio grazie a questa vitalità che il teatro napoletano ha anticipato dal basso le poetiche multiple indicate dalla critica del Novecento”.

Matteo Palumbo
“La Repubblica”, 10 dicembre 2004

  Certo, sarebbe ingeneroso negare che a Napoli il teatro non sia stato anche, nel giro di questi anni, una maniera di ripensare alle paure collettive e di metterle in scena: con i corpi, i suoni, le parole, le luci e tutti gli ingredienti adatti a quel mondo possibile che ogni autentica forma estetica incarna. C’era sulle spalle il peso ingombrante di una Tradizione: da assimilare e metabolizzare, ma da non ripetere né imitare come un linguaggio definitivo. D’altra parte, negli anni Ottanta era già nata quella linea che potremmo ora chiamare la Tradizione del Moderno. Aveva i suoi capostipiti e le sue anime variegate: De Berardinis, Ruccello, Moscato, Santanelli, Martone, De Simone. Il libro di Sant’Elia permette di cogliere, in questi e in altri protagonisti, il modo con cui quella storia si è prolungata e si è modificata. In tale mutamento Napoli è stata re-interpretata e reinventata. Del suo multiversum di linguaggi e di uomini è stato utilizzato volta per volta un frammento, un aspetto, che potesse rendere la potenza dell’intero.

Nicola Bruno
Intervista, “L’Unità”, 8 febbraio 2005

Bruno -Quali tradizioni individua nel contesto teatrale napoletano?
  “Personalmente individuo due grandi tradizioni teatrali. La prima è la tradizione d’autore, che a sua volta si muove lungo due assi: il primo è quello di Scarpetta, Eduardo, Santanelli e l’altro è quello di Petito, Viviani, Moscato. La prima è esemplare del processo di involuzione-evoluzione della piccola borghesia, soprattutto nella versione partenopea. La seconda ci racconta invece l’evoluzione-involuzione della plebe, un’altra di quelle caratteristiche tutte partenopee, che non mi pare altre città italiane condividano. E poi esiste un’altra grande tradizione, quella rinnegata di Pulcinella”.
Bruno -Perché Pulcinella è stato rinnegato?
  “Perché si ritiene che non sia all’altezza di questi tempi. Un po’ perché la stessa maschera non ha avuto, al di là degli attori e degli autori che la interpretavano in maniera continuativa, nuove traduzioni. Ma soprattutto perché Pulcinella di volta in volta è rimasto fedele a sé stesso e a un certo tipo di società. Superare Pulcinella è il discorso che faceva Garboli con II Tartufo, dicendo che la borghesia italiana ha saltato Il Tartufo. La città di Napoli e la sua borghesia hanno saltato Pulcinella, pensando che ormai i conti con la maschera fossero fatti. Quando invece proprio Pulcinella può essere un interlocutore spiazzante, basso, laido della nostra contemporaneità, perché comunque la maschera esprime una sua verità, la verità del corpo, la verità del basso, una verità ineludibile con cui fare i conti anche oggi.

Vincenzo Albano
“Misure critiche”, n. 1-2 2004

  Il volume, curato da Edoardo Sant’Elia, presenta un interessante iter negli anni Novanta, attraverso luoghi e Compagnie, autori e poetiche, interpreti e linee di tendenza della civiltà teatrale napoletana, avvalendosi non soltanto degli strumenti della critica, ma anche di quelli della testimonianza. Sono, questi ultimi, elementi che attribuiscono al testo non i caratteri di un elenco di avvenimenti spettacolari, ma quelli di una sapiente ricerca collettanea esplicitamente rivolta al contemporaneo e “filtrata dalla consapevolezza di una antica tradizione”. Organicità e completezza caratterizzano questa ‘operazione’, prima della quale non esisteva, se non in brevi saggi, o qualche monografia, o in studi rivolti esclusivamente alla “nuova drammaturgia”, un volume su tutte le proposte del decennio appena trascorso.