Edoardo Sant’Elia
Poesia tratta da riviste, antologie, volumi, cataloghi

Poeti degli anni ’80 (Nuove voci)
a cura di Renzo Chiapperini
Bari, Levante, 1993

Nota di poetica

   Non prediligo un’unica forma espressiva, ma un’unica idea, sin dall’inizio, sottende i miei scritti: quella per una letteratura colta e popolare, lontana in egual misura dall’intellettualismo e dal mestiere, dalla sperimentazione come alibi e dalla tradizione come rifugio.
   Philip Marlowe, in fondo, è un brav’uomo è una sorta di rondò esistenzial-poliziesco che coniuga in forma chiusa, alta, suggestioni e atmosfere mutuate da un genere “basso”. Apparentemente nel poemetto manca una trama, che tuttavia esiste ed è rinvenibile nel succedersi delle sei “stanze”: il protagonista (Philip Marlowe, perché no?) consuma le Attese, scocca e riceve Sguardi, torna sui propri Passi, osserva le Nubi, costeggia le Case, infine si concede ai Sogni. È la comune giornata di un detective – forse conduce un’inchiesta, forse non ha nulla da fare – che potrebbe essere la comune giornata di un qualsiasi animale metropolitano.
   Dall’ottimismo-pessimismo delle Attese al pessimismo-ottimismo dei Sogni: un incubo elegiaco venato d’ironia, tra il realismo sospeso dei quadri di Edward Hopper e la stilizzata frenesia di un film americano appena posteriore al muto. Sinergia degli opposti, scandita da una martellante secentesca gabbia sintattica che trattiene e contiene una serialità psicologicamente romanzesca e ritmicamente fumettistica, con deliri cromatici da pop-art (le Attese bianche, gli Sguardi rossi, i Passi neri…).

  Philip Marlowe, in fondo, è un brav’uomo

   I. Le Attese

Le Attese sono ambigue e sono storte
Le Attese si raddrizzano alle porte

Le Attese sono urgenti e sono stanche
Le Attese quando piove sono bianche

Le Attese sono matte e sono vuote
Le Attese vanno in giro senza ruote

Le Attese sono curve e sono in piedi
Le Attese sono fiabe a cui non credi

   II. Gli Sguardi

Gli Sguardi sono rossi e sono cupi
Gli Sguardi da lontano sono muti

Gli Sguardi sono freschi e sono antichi
Gli Sguardi sono angeli pudìchi

Gli Sguardi sono lunghi e sono lenti
Gli Sguardi sono strani movimenti

Gli Sguardi sono elmo e sono lancia
Gli Sguardi non si lasciano di mancia

   III. I Passi

I Passi sono lievi e sono duri
I Passi sono strisce lungo i muri

I Passi sono ghiaccio e sono fuoco
I Passi non li conti mai per gioco

I Passi sono lunghi e sono neri
I Passi vanno dietro ai tuoi pensieri

I Passi sono cerchio e sono retta
I Passi non seducono chi ha fretta

   IV. Le Nubi

Le Nubi sono cane e sono drago
Le Nubi sono appese con lo spago

Le Nubi sono azzurre e sono fumo
Le Nubi non nascondono nessuno

Le Nubi sono quadro e sono artista
Le Nubi sono trucchi da rivista

Le Nubi sono pioggia e sono pace
Le Nubi sono il cielo che non tace

   V. Le Case

Le Case sono massa e sono schegge
Le Case sono corpi fuorilegge

Le Case sono esca e sono scrigno
Le Case si richiudono in un ghigno

Le Case sono guglia e sono feccia
Le Case nella notte sono freccia

Le Case sono grigio e sono storia
Le Case sono ostaggi alla memoria

   VI. I Sogni

I Sogni sono libro e sono sabbia
I Sogni se li perdi sono gabbia

I Sogni sono verdi e sono stelle
I Sogni sono vette ormai gemelle

I Sogni sono piombo e sono piuma
I Sogni vanno in cerca di fortuna

I Sogni sono merce e sono vita
I Sogni non la fanno mai finita

“kr991”
rivista letteraria
Roma, Datanews, anno IV, n. 6, novembre ’94-aprile ‘95

Il guitto

 Sulle assi scalcinate
del palcoscenico – che un panno
verde ricopre ma non fino
agli orli – il guitto
si esibisce, corpo di
gomma ossa sporgenti, maschera
cupa che fa sbellicare.
I compagni infieriscono
su di lui: e chi gli tira
i capelli di stoppa, chi gli pianta
il ginocchio nei fianchi,
chi gli morde la lingua
di carta, chi lo tradisce
con biechi sorrisi, chi lo espone
al disprezzo della sala.
Il guitto s’arrabbia se può,
ricambia se deve, tutto sopporta
con animo saldo. Nessuno
immagina quale sia
la sua vera paura, ciò che teme
più d’ogni cosa: che dalla buca
del suggeritore spuntino
due braccia, le zampe grifagne
d’Arlecchino, e lo afferrino
alle caviglie tirandolo giù,
giù, sempre più giù, dentro
la buca, sotto il palcoscenico,
nel vano buio, a recitare per loro
un’altra parte, per loro,
i compagni di scena, che ora,
deposta la maschera, non
infieriscono più e lo circondano 
e lo additano – in silenzio – ai sordi
clamori di un pubblico assente.

Spoglie del silenzio
Salvatore Ravo, Catalogo d’arte
Traduzioni:
dal castigliano di Teresa Cirillo,
dall’inglese di Gordon Poole
Napoli, ESI, 1997

Dov’è la natura?

   I. Gli alberi

Alberi-uccello,
i rami come ali contorte,

il tronco un corpo
che si piega.
Alberi-fungo,
tentazione velenosa,
foglie da masticare.
Alberi-freccia,
puntati verso il cielo.
Alberi-aquilone,
il Vento-fiato freddo
li rispetta.
Alberi-totem,
fossili indecifrati
di un’epoca più ingenua.
Alberi-strumento,
la loro musica
è per orecchie adulte.
Alberi-sentinella
di nessun confine:
oscillano appena
sotto lo sguardo. 

   II. Il Sole 

Il Sole-moneta d’argento
racconta agli alberi
la sua ultima avventura:
“Feci una scommessa
con la Luna,
scommisi l’orizzonte
che la scorsa notte
l’avrei raggiunta,
l’avrei riscaldata
con i miei raggi.
Così, al tramonto,
mi nascosi dietro le nubi;
attendevo il momento.
Le stelle occhieggiavano discrete,
un mantello d’aria, frusciante,
leggero, mi avvolgeva;
senza volerlo, dormii.
E nel sonno la Luna fu mia.
All’alba, al risveglio,
nulla sembrava mutato:
ma io sostengo egualmente
di aver vinto la scommessa”.

   III. La Barca 

Sembra una fetta
di cocomero spolpato,
avanzo della cena
di un gigante.
Non si sa com’è giunta
fin lì, che mari
abbia traversato,
quali spiagge lambito;
ha l’inquietante dignità
di un meteorite
piovuto da altre dimensioni.
Forse conserva memoria
dei suoi viaggiatori,
ha nostalgia dell’acqua;
forse non vuol ricordare.
Un alone magnetico
la circonda;
un’àncora invisibile
la tiene fissa al suolo,
accanto agli alberi,
unici testimoni
della sua solitudine.

   IV. Le Ombre

Sono rare, segrete, sfuggenti.
Conoscono storie
che il Sole non saprebbe
raccontare.
Quando il tempo s’allunga,
all’infinito,
quando lo spazio
perde senso,
guizzano improvvise,

scavano un percorso
nella luce, accettano
il rischio dello sguardo;
poi si ritirano,
senza rimpianti.
Dell’ombra-serpente
si dice che una volta
non volle scomparire:
e restò per sempre lì,
sul terreno,
inutile e fiera,
non più ombra né corpo
ma astratto segno.

¿Dónde está la naturaleza?

   I. Los árboles

Árboles-pájaros,
ramos como alas torcidas,
el tronco un cuerpo
que se encorva.
Árboles-hongos,
ponzoñosa tentación,
hojas para mascar.
Árboles-flecha,
apuntando al cielo.
Árboles-cometa,
el Viento frio hálito
los respeta.
Árboles-totem,
residuo indescifrable
de una época ingenua.
Árboles-instrurnento,
su música
para oídos adultos.
Árboles-centinela
sin confín:
fluctuando imperceptibles
bajo la mirada.

   II. El sol

EI Sol-moneda de plata
cuenta a los árboles
su aventura última:
“Hice una apuesta
a la Luna,
aposté el horizonte
a que la nochc pasada
conseguiría alcanzarla,
calentarla
con mis rayos.
así, a la puesta del sol,
me escondí entre las nubes;
esperendo el momento.
Las estrellas miraban, tranquilas,
una capa de aire, como seda,
me envolvía ligero,
sin quererlo, dormi.
Y en el sueño la luna fue mia.
Al despertar,
nada en el alba parecía cambiado:
nada me impide pensar
que he ganado la apuesta”.

   III. La Barca 

Como un trozo
de sandía descarnada,
que sobrara en la cena
de un gigante.
No sabemos corno llegó,
hasta allí, qué mares
atraversó,
que playas acariciará;
con la inquietante dignidad
de un meteorito,
que llega de otros mundos,
Que recuerda
a sus viajcros,
nostalgia del agua;
puede que no quieta recordar.
Un alo magnético
en torno a ella;
un anela invisible
la fija al suelo,
junto a los àrboles,
únicos testigos
de su soledad.

   IV. Le Ombre

Raras secretas, huidizas,
Saben historias
que el Sol no sabria
repetir.
Cuando el tiempo se prolonga,
al infinito,
cuando el espacio
ya no tiene sentido,
se deslizan,
dibujando un camino
en la luz, aceptando
el riesgo de la rnirada;
retirándose despues,
sin añorar nada,
De la sombra-serpiente
se dice que una vez
no quiso desaparecer:
y se quedó alli para siempre,
en el suelo,
inútil y altiva,
no más sombra ni cuerpo,
sino abstracto signo.

Whers’ nature? 

   I. Trees

Bird trees,
boughs like twisted wings,
the trunk a body
bending.
Mushroom trees,
venomous enticement,
chewing leaves.
Arrow trees,
pointcd heavenward.
Kite trees,
cold-breath Wind
respects them.
Totem trees,
undecoded leftovers
from a simpler time.
lnstrument trees,
their music
is for adult ears.
Sentry trees
along no border:
they barely teeter
under scrutiny.

   II. Sun 

Silver coin Sun
tells the trees
his latest adventure:
“I made a wager
with Moon,
I bet her the horiznn
that last night
I’d join her,
I’d heat her
with my rays.
So, come sundown,
I hid bchind the clouds;
waiting till the time was ripe.
The stars were peeking, discreetly,
an airy cloak, rustling,
buoyant, girdled me;
without wanting to, I dozed,
In my sleep Moon was mine.
Come dawn, awakening,
nothing seemed changed:
but just the same I claim
I won the wager.”

   III. The Boat

Looks like the rind
of a slice of watermelon,
left over from the supper of some giant.
Who knows how it got
therc, what seas
it sailed,
brushed against what beaches;
it has the disquieting dignity
of a meteorite,
fallen from some other dimension.
Maybe it still recollects
its voyagers,
yearns for the water,
maybe it doesn’t want to recall.
A magnetic aura
encircles it;
an invisible anchor
fixes it to the earth,
near the trees,
lone witnesses
to its solitude.

   IV. Shadows

They’re rare, secret, fleeting.
They know tales
Sun wouldn’t know
how to tell.
When time stretches,
infinitely,
when space
loses meaning,
they flicker suddenly,
dig a trail
across the light, run
the risk of being gazed at;
then withdraw,
no regrets.
The serpent-shadow,
it is said, once
would not disappear:
and he stayed there forever,
on the ground,
useless and haughty,
no longer shadow nor body,
an abstracted sign.

“La clessidra”
quadrimestrale di cultura letteraria
Alessandria, Edizioni Joker, anno IV, n. 3, ottobre 1998

Quintetto 

   I. La Follia

La rotta non muta Follia
Sicura d’averti in balìa
Né chiede speciali favori
Né giochi bizzarri né onori
Ma i cerchi dipinti sul mare
Che l’onda verrà a cancellare
Quei cerchi creati da un sasso
Li gode con intimo spasso

   II. Il Tempo

Il Tempo dai lunghi speroni
Avendo smarrito i suoi doni
A nuovi sentieri s’affaccia
E lungo le piste che traccia
Scantona s’inchina si scuote
Rovescia le tasche già vuote
Palesi si fanno le orme
Del gran viaggiatore deforme

   III. La Morte

La Morte che lieta canzona
Ed ogni tuo sbaglio perdona
E giura con voce ridente
Io sono quell’ombra fuggente
Benché poi ti neghi il sorriso
Parole ti mormora in viso
Lusinghe ti lancia beffarda
Oppure nemmeno ti guarda.

   IV. Il Sonno

Il Sonno che tesse la trama
D’un’ultima saga lontana
T’avvince con lacci di seta
Ti plasma con mani di creta
Con brani perduti di canti
Aduna ricordi vaganti
Infine con lieve pudore
Un’eco depone nel cuore

   V. Il Ricordo

Il vasto ombroso Ricordo
Che un battito appena più sordo
A uscire dal cuore costrinse
E verso l’ignoto mi spinse
Veniva da un luogo lontano
Caverna ma senza guardiano
Foresta ma senza radici
Tranello di tempi felici

Scrittori per Eduardo
volume in onore di Eduardo De Filippo, a cura di Patricia Bianchi
Napoli, ESI, 2014

Si ride a Napoli… 

   I. Eduardo

La collera che monta
poco a poco
ma che rimane dentro,
chiodo nella carne.
Lo sdegno lungo,
la smorfia amara
che non fa sconti;
gli zigomi orgogliosi.
Amante stagionato,
nostalgico, vanesio,
padre inconsapevole;
e poi reduce casuale,
blandito e inascoltato,
di una guerra da dimenticare;
e poi inquilino di case
troppo ampie, amico
interessato dei fantasmi.
Sempre sé stesso, nei personaggi:
piccoli tocchi, sguardi sghimbesci,
silenzi come pietre nello stagno.
Illusionista senza illusioni,
giudica e si vendica
e perdona. Il suo cilindro
incute soggezione:
ma è solo un cilindro.

   II. Peppino

Quei baffetti impertinenti
eppure dignitosi,
da caporal maggiore,
da piccolo borghese,
da seduttore impavido.
Quella grettezza
candida, indifesa,
da provinciale
in gita di dovere.
Quei passettini corti
cauti, circospetti;
quegli improvvisi
lampi di malizia.
Il decoro è cucito su misura:
un panciotto attillato,
il cravattino scuro,
la riga nei capelli;
estremista della normalità.
Ma anche sciocco, all’occorrenza,
di una sciocchezza astuta,
servo senza padrone,
buffone in libertà.
Sulla punta della lingua
giacciono, si dimenano
lo sberleffo e le scuse.

   III. Totò

Divaga, scantona, deduce;
e nelle chiacchiere
rinnova l’estro.
Natura gallinacea
ma non pulcinellesca
esplora lo spazio
con il corpo,
assaggia la realtà,
inventa segni, movenze, gesti.
Netturbino, s’arrabbia con la scopa;
torero, cincischia con il toro;
truffatore, rivende il Colosseo.
Appena può, si libera di tutto:
valigie volano dal treno in corsa,
bottoni saltano dal vecchio frack,
piatti s’infrangono sul pavimento.
Nella tristezza statua di sale,
si cristallizza, esangue.
Plebeo peccaminoso
e sussiegoso principe,
incarna miseria e nobiltà:
è senza tempo, è solo sua
sul tavolaccio apparecchiato a festa
la tarantella degli spaghetti.
Si ride a Napoli…